Eccomi parla di amore e della sua dissoluzione. Jacob e Julia Bloch hanno quarant’anni e tre figli, Sam, Max, e Benjy, e una quantità di nonni americani e di cugini in arrivo da Israele. La famiglia Bloch, come in tutti i romanzi di Foer, è ebrea. Jacob scrive una serie televisiva di cui non è orgoglioso, Julia è architetto, anche se non ha mai progettato una casa.
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Il romanzo – lungo 665 pagine – descrive nel dettaglio, fino alla dissezione, il momento in cui Jacob e Julia prendono coscienza della distanza che è scivolata tra loro senza che se ne accorgessero, mentre erano impegnati a fare altro, a occuparsi dei figli, della casa, a portare fuori la spazzatura o a raccogliere i resti lasciati sul pavimento dal loro vecchio cane incontinente. La fine, naturalmente, inizia quando Julia scopre gli sms di Jacob. «Non esiste una sola storia con un cellulare che finisca bene». «Tutto era qualcos’altro sublimato: la prossimità domestica era diventata distanza intima, la distanza intima era diventata vergogna, la vergogna era diventata rassegnazione, la rassegnazione era diventata paura, la paura era diventata risentimento, il risentimento era diventato autodifesa». «In passato il contatto fisico li aveva sempre salvati». «Entrambi conoscevano bene quella sensazione, nel silenzio di una camera da letto buia, gli occhi fissi sul soffitto». «Le consuetudini domestiche erano così ben radicate che sfuggirsi era abbastanza facile. E nessuno riusciva a sopportare la vergogna che l’altro fosse stato un genitore migliore». Uno dei temi centrali del libro è il modo in cui la cura dei figli entri dentro l’amore tra due persone, lo trasformi e possa consumarlo. Eccomi è anche la descrizione di una generazione, quella dei quarantenni e cinquantenni, che vive l’essere madri e padri come una prestazione pubblica, qualcosa in cui realizzarsi. «Sei più preoccupata di farti vedere come una mamma fica che di essere in realtà una brava mamma», dice a sua madre, Sam, il maggiore. «Ti rende triste il fatto che amiamo i bambini più di quanto ci amiamo noi?», chiede Julia a Jacob, ripetendo senza saperlo una frase scritta da Jacob per la sua serie tv. Come in tutti i romanzi di Safran Foer la storia intima dei personaggi si intreccia con quella degli ebrei, del loro passato e dell’impossibilità di essere certi di avere una terra, un posto nel mondo. Nella seconda metà del libro un terribile terremoto distrugge Israele e impone ai personaggi la scelta se esserci o no. Il titolo è una citazione della Bibbia: «Here I Am», «Eccomi», «Sono qui» è la risposta di Abramo quando Dio gli chiede di sacrificare il figlio Isacco. (Per inciso: un padre disposto a sacrificare il figlio perché sente una voce andrebbe arrestato, non dovrebbe fondare le tre religioni monoteiste). Per Safran Foer, invece, la risposta di Abramo è l’essenza dell’amore che consiste nell’esserci per un altro. Il paradosso è che lo sforzo di essere presenti, di essere sempre all’altezza delle aspettative di chi si ama, conduce necessariamente a estraniarsi da sé: conduce all’assenza, a non esserci più, conduce, quindi, alla fine dell’amore.